La Croce e il Diavolo

Il FABBRUTTISMO teodiceo come spiegazione del male nel mondo

Kamakura (Giappone), Anno Domini 2011

In quei giorni mi recai a Kamakura, a pochi chilometri da Tokyo e presso il tempio Jōchi-ji (un po’ buddhista e un po’ scintoista) e trovai un cartello che recitava: “Walk this way, the God of Happiness is waiting for you in the cave”.

Il dio della Felicità? E come sarà rappresentato? Com’è un dio felice? Io, che conosco solo martiri, passioni e crocifissioni. Io che fin dai primissimi anni della mia vita, ho imparato bene quella lezione secondo cui, non c’è gioia se non nell’alto dei cieli. Io che abito in una valle di lacrime, che partorirò con dolore e lavorerò con gran sudore.

Zampettando tra i gradini scavati nella roccia, affaticata nonostante il fresco e l’ombra della foresta di bambù, sono arrivata a quella che era a tutti gli effetti un grotta, con verdi felci e grappoli di muschio a far da cornice, che ospitava un Hotei. Una statua di Buddha, dunque, grasso e calvo che mi stava aspettando per spiegarmi cos’è la felicità, o almeno così speravo.

Quello che ho trovato invece, è stato un Buddha che mi puntava addosso l’indice cicciotto e se la rideva alla grande. Conscio, forse, del mio fiatone e del fatto che avevo spinto un po’ troppo il passo per arrivare prima possibile a lui. Dopotutto lui stava aspettando ME. Consapevole dell’aspettativa che reca il suo nome, il “Buddha che ride” di Kamakura, mi ha guardato, come un padrone infatuato guarda il proprio gatto che s’avviluppa in un gomitolo di lana, tormentandosi. E con quel dito mi ha detto: “Sei tu, sciocchina”, ed io, davanti a lui, non ho potuto fare altro che rispondere al suo sorriso e dire: “Chapeau, vecchio Buddha. Questa volta me l’hai fatta”.

Bobbiate (Italia), Anno Domini 1980-qualcosa.

Sono stata nei Boyscout. Frequentavo, ai tempi in cui ero un “Lupetto” e prima ancora “Castorino”, una grossa chiesa -rossa di mattoni e grigia di cemento- con enormi, grossi, giganti, mastodontici affreschi, impossibili da non guardare. Erano affreschi “moderni” che, al posto della vita dei Santi, raffiguravano bambini africani denutriti col ventre gonfio, le costole sporgenti e le mosche appiccicate agli occhi, uomini e donne rapati a zero, riddotti all’osso con indosso quelli che ai tempi mi sembravano pigiami a righe e poi ancora altro.

Immagini di dolore, fame e crudeltà. Ed io agli Scout non ci volevo più andare, anche perché ero l’unica femmina tra i “Lupetti” (le bambine di solito facevano le “Coccinelle”) e poi perché mi facevano vestire da idiota e avevo le Timberland. E poi perché proprio non mi capacitavo come fosse possibile passare un’ora a Messa davanti a quelle immagini e poi andare a giocare come se niente fosse. Per poi finire davanti alla tavola imbadita del pranzo della domenica, con la famiglia e gli avanzi da scaldare la sera e poi buttare il lunedì.

C’avevo insomma, il senso di colpa di non soffrire abbastanza e sebbene avessi le costole sporgenti e le anche appuntite, non era sufficiente. Da allora, dai tempi dei “Lupetti” e del mio ammutinamento dagli Scout, mi sono posta per anni e anni, una domanda:

Perché? Perché il male? Perché il dolore? La sofferenza e la malattia?

Attenzione: la domanda non è “perché si soffre”. La domanda è perché la religione cristiana cattolica romana apostolica stocazzo c’ha ‘sta fissa col dolore?

nihilismiNella Croce di Cristo non solo si è compiuta la redenzione mediante la sofferenza, ma anche la stessa sofferenza umana è stata redenta. Le sofferenze di Gesù furono il prezzo della nostra salvezza. Da allora, il nostro dolore unito a quello di Cristo può essere reso partecipe della Redenzione dell’umanità intera. Questa è stata la grande rivoluzione cristiana: trasformare il dolore in una sofferenza feconda; fare, di un male, un bene. Abbiamo spogliato il diavolo di quest’arma…; e, con essa, conquistiamo l’eternità.

Si parla di croce e si parla del Diavolo. E qui parlermeo di croce e di Diavolo. Partiamo dalla croce.

Nella quinta stazione della Via Crucis, Gesù viene aiutato a portare la croce da Simone di Cirene, ma -dicono le Sacre Scritture- che l’uomo, quando fu sollecitato ad aiutare Gesù a portare la croce, non mostrò alcuna intenzione da farlo, ma alla fine venne costretto dai suoi cari. Leggiamo su http://www.gesumaria.it che: «In un primo momento vedeva solo la croce, e la croce non era che un legno gravoso e molesto. Poi non si preoccupò più del legno ma del condannato, quell’uomo del tutto unico che stava per essere giustiziato. Allora tutto cambiò: aiutò Gesù con amore e meritò il premio della fede per sé e per i suoi due figli, Alessandro e Rufo. Anche noi, in mezzo alle prove e alle tribolazioni, dobbiamo guardare a Cristo. Ci preoccuperemo meno della croce e faremo posto all’amore».

Leggiamo bene: «aiutò Gesù con amore e meritò il premio della fede per sé e per i suoi due figli, Alessandro e Rufo». Sì, perché secondo la dottrina cristiana, i popoli e gli individui sono responsabili delle proprie azioni ed il bene degli uni ricade sugli altri e così il male, i meriti e le colpe dei padri si riversano sui figli, come possiamo leggere sul Deuteronomio 28, sul Levitico 26 e su altri testi sacri come il Libro dei Giudici e il Libri dei Re. Su questo si basa il concetto di retribuzione, ovvero la questione di come Dio premi o castighi le azioni degli uomini.

Che cos’è il male? E perché soffriamo, secondo la religione sponsor ufficiale del Belpaese?

La “retribuzione” può essere spiegata in differenti teorie:

C’è la retribuzione terrena colletiva, per esempio, per cui noi tutti siamo responsabili delle nostre azioni, come la buona azione di Simone di Cirene che aiuta Cristo a portare la croce, si ripercuoterà sui suoi figli. Ed è per questa ragione che l’uomo, sebbene controvoglia, motivato e incentivato dall’interesse diretto dei propri cari («Vuoi mettere quanta merda pioverebbe sui tuoi figli e sui figli dei tuoi figli se non aiuti il Cristo? Mica la vecchietta che attraversa la strada, stiamo parlando di Gesù Nostro Salvatore che conduce la croce verso il Golgota» deve avergli detto la moglie).

C’è la retribuzione terrena individuale, secondo cui (dice Ezechiele) ognuno è responsabile delle proprie azioni e viene premiato in virtù di queste. Ma tutto questo fa un po’ troppo Antico Testamento e il ragionamento un po’ vacilla. Se paghiamo solo e soltanto per i nostri errori, allora perché anche i giusti soffrono e gli stronzi (ooops… si dice “empi”) godono? Questa teoria non piace molto ai teodicei (ovvero quei teologi che studiano il rapporto tra la giustizia di Dio e la presenza nel mondo del male). Insomma – dicono i teodicei – ha più senso che per il principio di solidarietà, il sopravvento dei peccati della collettività, vada a pesare persino sui giusti, che vengono dunque puniti insieme ai malvagi. Com’è che diceva la panettiera sotto casa? Mal comune mezzo gaudio? Chi va con lo zoppo impara a zoppicare? Qualcosa del genere. Ma se così non fosse ed ognuno è resposabile solo per se stesso perché i bambini si ammalano e muoiono? Perché le mosche vanno ad appiccicarsi agli occhi di quegli innocenti pargoli africani che non hanno colpe? Perché l’olocausto, i pogrom, i genocidi, gli stupri etnici, perché un fulmine non colpisce Marchionne in pieno cranio? Lo vedremo.

Ecco allora che arriva la retribuzione ultraterrena. Dice Paolo: «Le sofferenze del tempo presente non sono paragonabili alla gloria che deve rivelarsi a noi» e poi «Io completo nella mia carne quello che manca alle prove di Cristo per il suo corpo che è la Chiesa». Traaac! Torna il tanto caro concetto di sacrificio. Ma approfondiamo la cosa…

Jesus died for somebody’s sins but not mine…

Job-BlakeLa sofferenza di Cristo fu il prezzo per la nostra salvezza. Non lo avete chiesto? Amen. Accettatelo. Lui l’ha fatto per voi. Anzi, Dio lo ha fatto per voi. Dal momento in cui Gesù è stato sacrificato, il nostro dolore confluisce nel suo ed incrementa quel grosso fiume della Redenzione dell’umanità tutta. Mica cazzi. Il nostro dolore è patrimonio dell’umanità. Andrebbe tutelato e protetto dall’Unesco.

«Il dolore purifica l’anima, la eleva, aumenta il grado di unione con la volontà divina, ci aiuta a staccarci dai beni, dall’attaccamento eccessivo alla salute, ci fa corredentori con Cristo» dicono.

Così come Simone da Cirene, sebbene controvoglia, abbia aiutato Cristo a condurre la croce al Golgota (dove verrà sacrificato per la nostra salvezza – ricordiamolo – che è un po’ come aiutare un vitello ad affilare la mannaia che lo sgozzerà, per poi magnarcelo), ha trasformato la sofferenza in un atto di amore, così dobbiamo imparare a fare noi tutti. Perché «in questo mondo non è possibile amare senza sacrificio, ma il sacrificio è dolce per chi ama».

Bisogna traformare il dolore in amore, affinché il «nostro cuore si trasformi subito in un fuoco di amore che consumi poco a poco le scorie accumulate per le nostre colpe e ci farà diventare vittime di espiazione, felici di ottenere, al prezzo della sofferenza, una purezza maggiore, una più stretta unione con l’Amato». (Col 1,24)

Questa cosa si chiama Cristoconformazione, perché vivere in Dio e con Cristo, vuol dire vivere dal di dentro l’esperienza del mistero del dolore senza lasciarsi abbandonare all’abisso del non senso, alla disperazione. Soffrire, come già detto in diverse occasioni, ci fa identificare nelle sofferenze del figlio di Dio. Che se ha subito lui le peggio cose, che è figlio di… allora che cazzo mi lamento a fare, no? Chi sono io per non accettare il dolore?

Quando si parla di dolore (e di conseguenza, di giustizia divina) nella nostra religione preferita, si parla spesso di un tizio di nome Giobbe.

Questo poveraccio aveva tutto (mogli e buoi, tipo) e aveva anche molta fede, ma quel cattivone di Satana, che era ancora alle dipendenze di Dio e non s’era ancora ribellato (Dio, lo chiamava “figlio” infatti), insinuò il dubbio nella mente beata di Dio. «Signore – deve avergli detto – Giobbe ti venera e ti è devoto perché è un fortunello, ma se gli togliessi tutto? Ma proprio tuttotutto, ti amerebbe uguale? Eh? Eh?»

E così, il nostro Signore, colto nell’orgoglio, accettò la scommessa e al povero Giobbe gliene fece di ogni.

«Ero sereno e Dio mi ha stritolato, mi ha afferrato la nuca e mi ha sfondato il cranio, ha fatto di me il suo bersaglio. I suoi arcieri prendono la mira su di me, senza pietà egli mi trafigge i reni, per terra versa il mio fiele, apre su di me breccia su breccia, infierisce su di me come un generale trionfatore». (Giobbe 16,12-14)

Giobbe, privato di ogni ricchezza terrena, dell’affetto dei figli (moriranno tutti, sotto il crollo della propria casa), abbandonato dalla moglie che non capisce («Perché non maledici Dio?» ci chiedeva), col corpo ricoperto di piaghe dolorose è solo. Arrivano in soccorso i suoi amici.

Ogni amico rappresenta un approccio differente a quelle che sono le possibili “risposte” al dolore e alla sofferenza.

nihilismiIl primo, Elifaz, gli dice che se soffre è perché ha peccato (retribuzione terrena individuale). Il male fisico, dunque, è la conseguenza del male morale. Gli dice. E così anche gli altri tranne Elihu, il più giovane di essi, che dice:«Si manifesterebbe la tua salvezza senza soffrire e senza un fortissimo sforzo? Non agognare la notte che stermina tutte le genti, guardati bene dal volgerti verso l’iniquità, come stai per scegliere per il troppo dolore! Quanto è elevato Dio nella Sua forza, chi può essere una guida come Lui?»

Che volgarmente potrebbe essere tradotto: sei sicuro di voler metterti contro uno tanto forte e potente, che t’ha fatto ‘ste cose pur amandoti e pur essendo amato, solo per metterti alla prova? Branca della teodicea non ufficialmente riconosciuta come quella del “Fabbruttismo”. Dio fabbrutto, non dimenticarlo. Meglio averlo come amico, che come nemico.

Giobbe però, prosegue indefesso nella sua “passione” e mai mette in dubbio la sua fede, semmai si pone degli interrogativi, ma mai sconfessa o s’incazza con Dio. All’apice della sofferenza Giobbe dirà: «Ti conoscevo per sentito dire, ma ora i miei occhi ti vedono…» eppure ha bisogno di una risposta. Risposta che gli verrà negata.

«Perché han lunga vita i malvagi, giganteggiano, crescono in ricchezza? La loro prole è assieme a loro, stabile, riescono a vedere i propri discendenti. Le loro case non conoscono la paura, lo scettro divino non li minaccia?»

Eppure la sua fede non vacilla. Il Signore ha vinto la sua scommessa, fa la stecca a Satana e quindi premia il povero Giobbe con ogni fortuna che gli aveva tolto, moltiplicandola. Dal Libro di Giobbe…

«E il Signore benedisse l’ultima parte della vita di Giobbe più del suo principio; ed egli possedette quattordicimila ovini e seimila cammelli e mille coppie di buoi e mille asine. Ed egli ebbe sette figli e tre figlie. […] Dopo questi fatti, Giobbe visse ancora cento e quarant’anni, poté godere dei propri figli e dei figli dei propri figli per quattro generazioni. Poi Giobbe morì, anziano e sazio di anni»

E fin qui tutto bene. Cioè, alla fine Dio ha vinto su Satana tentatore ed insinuatore di dubbi, Giobbe è stato ripagato di tutte le disgrazie e ha campato per una paccata di anni felice e contento. Sì, ma perché? Che cazzo dovrei imparare da questa cosa? Qual è il messaggio, di grazia? Nessuno o meglio. Un messaggio c’è. Ed è terribile. Alla fine del Libro di Giobbe, Dio compare all’uomo (dici, magari vuole chiedergli scusa… stocazzo!) e lo fa in grande pompa, in mezzo alle nubi con un spettacolo pirotecnico e gli angeli e i putti e le fanfare e…

«(Dio) lo annichilirà mostrandogli la sterminata potenza della creazione (il Fabbruttismo, ricordate? NdR) e lo rimproverà per aver preteso di capire cose troppo grandi per lui».

Giobbe s’era posto un interrogativo del tipo «perché Dio permette il male dell’uomo giusto?». A cui il Divino non risponderà, lo farà per lui Isaia (Isaia 55,6) dicendo: «I miei pensieri, le mie vie non sono le vostre». Del tipo: «Che cazzo ti guardi?»

«Dunque non è illegittimo interrogarsi. Ciò che non è legittimo per l’uomo è darsi da solo una risposta…» Del tipo: «Che cazzo ti guardi?» Again.

Facendo un sunto. Se soffriamo è perché prima di noi ha sofferto Cristo e il nostro soffrire congiunto serve per:

  1. redimere i peccati dell’umanità intera;

  2. renderci più puri e vicini al divino (“Cristoconformazione”);

  3. mettere a dura prova la nostra fede;

  4. far vincere una scommessa a Dio

Perché io e non gli stronzi? Forse non lo sai, ma anche tu sei uno stronzo. Non credere dunque di non meritare il male. Perché? A questa domanda ci risponde quel simpaticone di Elifaz, l’amico di Giobbe che per prima gli fece visita per dirgli che si meritava ogni male (quello di «Per quanto io ho visto, chi coltiva iniquità, chi semina affanni, li raccoglie» per intenderci) che, ad un Giobbe saturo di piaghe e di sciagure aveva detto di aver avuto una visione in cui un personaggio ritto, un messaggero, un angelo che gli disse: «Può il mortale essere giusto davanti a Dio o innocente l’uomo davanti al suo Creatore?». La risposa è NO. Su www.corsobiblico.it leggiamo: «Il contenuto della visione è il giusto rapporto della creatura col Creatore, lo stesso Elifaz si riconosce peccatore davanti a Dio e a Giobbe. L’uomo ha una fragilità intrinseca che gli impedisce di presentarsi davanti a Dio come una persona giusta».

E quindi? Se non è per i tuoi avi, è per i tuoi vicini di casa, o per gli orrori del fascismo, o per la polizia violenta, o i politici corrotti e i mariti violenti, o le madri assassine. Se non è per loro è perché tu sei un mortale. Hai un “limite” che Dio non ha. «La Croce è parte della vita: malattia, sofferenza, morte sono esperienza comune degli uomini. Non si riesce a sottrarvisi. E quindi è questo il nostro essere nel mondo; un mondo limitato, che ha un inizio e una fine.»

Quindi – ripeto – che cazzo ti guardi?

 di Jessica Fletcher, Nihilismi#2

[immagini di J. Brohy, W. Blake, Matt Nihilist e dei Lego]