Dalla dittatura della materia al feticcio del supporto.

su Nihilismi#0 di Barbra Streisand

Berna, 1886 – Convenzione di Berna.

La Convenzione di Berna, per la protezione delle opere letterarie e artistiche, stabilisce per la prima volta il riconoscimento del diritto d’autore fuori dai confini della nazione di appartenenza.

La suddetta è stata voluta da Victor Hugo, che forse aveva previsto il rifacimento in musical del Gobbo di Notre Dame di Cocciante, cosa che lo accomuna a Manzoni, pure lui stronzo romantico, ferrato sulla preservazione dei diritti d’autore e a sua volta oltraggiato da un musical di Cocciante. Evidentemente lo sentivano che dovevano fare qualcosa per evitare lo scempio e l’arricchirsi del nano evasore Willow, però sono morti troppo presto e i loro diritti sono liberi. “Liberi” nel senso che non ha dovuto chiedere il permesso agli eredi dei due, per fare quello che ha fatto, poiché i diritti sull’utilizzo di un’opera hanno la durata di 70 anni dalla morte dell’autore (in merito alla durata del diritto d’autore vi consiglio di vedere The Disney Trap – How copyright steals our stories di Monica Mazzittelli.)

 …negli anni novanta, stavano per scadere i diritti d’autore della Disney sul topo […] immaginati cosa sarebbe stato il mondo se avessimo liberato tutti quei topi e cenerentole? Te lo immagini? Potevamo usare il papero per la pubblicità senza pagare. Il papero sarebbe diventato l’eroe di un cartone animato porno e fottersi Pippo nella fattoria di Nonna Papera, o ammazzare quei mostri di Qui Quo e Qua. Il mondo non sarebbe stato più lo stesso, sarebbe stato un casino disneyano…

NON SI PUO’ POSSEDERE CIO’ CHE NON HA UN CORPO.

La covenzione di Berna serviva per normalizzare a livello transnazionale, tutto ciò che aveva a che fare con il concetto di proprietà intellettuale. Per essa s’intende un corpus eterogeneo che va dal diritto d’autore, ai brevetti, alla topologia dei semiconduttori (???). Ma parliamo di editoria…

Manzoni, ad esempio si era ritrovato a dover fare causa a un tale Le Monnier poiché quest’ultimo aveva diffuso a cazzo una vecchia edizione dei Promessi Sposi (prima che venisse “sciacquata in Arno”). Il fatto è che ai tempi l’Italia, non era un’unica repubblica fondata sul lavoro precario, ma un casino di stati e staterelli che facevano quello che volevano (Devolution! Devolution!) e quindi i diritti d’autore dei Promessi Sposi avevano valore a Milano, ma non a Firenze o a Napoli e quindi, l’astuto Le Monnier prese una vecchia versione, decise di stamparla e metterla in vendita. Ci fu un processo e vinse Manzoni, ma sia lo scrittore-poeta-drammaturgo milanese, sia l’editore franco-fiorentino erano d’accordo su una cosa:

Il concetto di proprietà letteraria è un concetto spurio, dal momento che solo le cose “corporali e limitate” possono appartenere a qualcuno. Non si può avere proprietà su oggetti immateriali, indefinitamente condivisibili. Si ha la proprietà sull’oggetto libro, fatto di carta e inchiostro stampato e quindi stimabile in carta-moneta.

Per quanto Manzoni fosse uno stronzo, la ragione che lo spinse a fare causa a monsieur Le Monnier era una giusta causa; Manzoni dopotutto si era autoprodotto un romanzo difficile (per i tempi), scomodo e rivoluzionario. Ci aveva lavorato per decenni e ci credeva così tanto che aveva deciso di sborsare di tasca propria i soldi per stamparlo, e nell’Ottocento, stampare un libro era una roba oltremodo costosa. Manzoni, in fondo era semplicemente scocciato dal fatto che qualcuno guadagnasse sul suo lavoro, non per il mancato ricavo e neanche per la diffusione incontrollata dell’opera. D’altronde, la firma di un contratto editoriale non dovrebbe essere altro che un accordo siglato tra l’autore e l’editore di esclusività e monopolio della RIPRODUZIONE e del COMMERCIO dell’opera. E infatti non ho mai capito perché un editore dovrebbe prendersi il 50% dei diritti d’autore per la trasposizione cinematografica di un’opera letteraria. Un regista, un produttore o uno sceneggiatore, vogliono trasformare l’idea e diffonderla attraverso un nuovo media e un differente linguaggio. Si tratta comunque di un’idea, della storia raccontata e non dell’oggetto che la contiene. Si tratta dunque di una sorta di tassa che l’editore si piglia per concedere l’idea di un’altro ad un terzo soggetto e stiamo parlando del 50% non una roba simbolica del tipo: dopotutto se non ti avessi pubblicato, quel tal produttore-regista-non avrebbe mai letto la tua storia e non gli sarebbe mai venuto in mente di farne un film….

LA DITTATURA DELLA MATERIA.

Uruguay, 1994 – BAD TRIPS

Nel 1994 in Uruguay ci si è ritrovati e si è deciso di allargare la convenzione di Berna all over the world. La cosa era organizzata dal WTO (world trade organization) che si occupa di mercato e non di arte e/o cultura. E ciò che ne è emerso viene chiamato TRIPS ovvero trade-related aspects of intellectual property rights, che sta per “aspetti dei diritti di proprietà intellettuali attinenti al commercio”. E ribadisco COMMERCIO cioè lo scambio di merci in cambio di denaro. Se non ci sono soldi non c’è commercio.

La proprietà intellettuale (termine orribile, ma è quello che abbiamo a disposizione) è qualcosa d’inviolabile che non ha bisogno di leggi e di convenzioni o di bollini del cazzo. Nel momento in cui scrivi un articolo, una poesia o un racconto, la tutela è automatica. Non c’è bisogno di marchiarlo con la temibilissima ©, non c’è bisogno di specificarlo. Nell’attimo in cui crei, quella cosa è tua e puoi rivendicarlo in ogni modo e in ogni dove. Sì, ok… devi riuscire a provarlo. Puoi mandarti una mail, puoi mandarti una raccomandata chiusa e sigillata, oppure puoi… (vedi sezione IL FETICCIO DEL SUPPORTO)

Ora, i diritti di un autore si dividono in: [dal sito della SIAE]

Diritti morali

I diritti morali sono assicurati dalla legge a difesa della personalità dell’autore e si conservano anche dopo la cessione dei diritti di utilizzazione economica. Essi non sono soggetti a termini legali di tutela.

I principali diritti morali sono:

* il diritto alla paternità dell’opera (cioè il diritto di rivendicare la propria qualità di autore dell’opera);

* il diritto all’integrità dell’opera (cioè il diritto di opporsi a qualsiasi deformazione o modifica dell’opera che possa danneggiare la reputazione dell’autore);

* il diritto di pubblicazione (cioè il diritto di decidere se pubblicare o meno l’opera);

Diritti patrimoniali (o di utilizzazione economica)

I principali diritti di utilizzazione economica dell’opera sono:

* diritto di riproduzione: cioè il diritto di effettuare la moltiplicazione in copie dell’opera con qualsiasi mezzo;

* diritto di esecuzione, rappresentazione, recitazione o lettura pubblica dell’opera: cioè il diritto di presentare l’ opera al pubblico nelle varie forme di comunicazione sopra specificate;

* diritto di diffusione: cioè il diritto di effettuare la diffusione dell’opera a distanza (mediante radio, televisione, via satellite o via cavo, su reti telematiche, ecc.);

* diritto di distribuzione, cioè il diritto di porre in commercio l’opera;

* diritto di elaborazione, cioè il diritto di apportare modifiche all’opera originale , di trasformarla, adattarla, ridurla ecc..

Tutti questi diritti permettono all’autore di autorizzare o meno l’utilizzo della sua opera e trarne i benefici economici.

L’autorevole © blinda l’utilizzo e la diffusione dell’opera. L’auterevole ©, da tutela autoriale, è diventata un’arma in mano ai produttori di supporti e tutto si è incasinato, come in un brutto viaggio sotto lsd in cui non si distingue più l’idea dal supporto.

Ma se la diffusione di un’opera non costitituisse alcun tipo di beneficio economico?

Un autore firma un contratto e accetta una sorta di monopolio da parte della casa editrice (etichetta discografica o.) per la riproduzione su supporto e la commercializzazione dello stesso. La casa editrice (etichetta discografica o.) attraverso l’autorevo ©, si arroga il potere del controllo totale sull’opera. Cosa che succede quando si condivide qualcosa sul web, per esempio? L’opera vive senza un supporto. L’idea senza un corpo. E in questa cosa, il produttore di supporto non c’entra un cazzo. E’ una roba tra l’autore e il fruitore. Punto.

La convenzione di Berna serve e i BAD TRIPS servono per regolarizzare gli aspetti dei diritti della proprietà intellettuale attinenti al commercio. Cioè se vuoi vendere le tue idee o quelle degli altri, ci sono delle regole e non c’è nulla che non va in questo… ma se non c’ supporto, non c’è costo. Se non c’è costo, non c’è denaro e non c’è mercato. Tu carichi l’opera del tuo ignegno on line e può arrivare a milioni di persone…

Transustanziazione digitale.

C’è una roba che accomuna gli anarchici e i liberisti. Gli artisti e gli economisti. Imbrigliare (qualsiasi cosa) vuol dire soffocarla. Lo diceva all’americano Benjamin R. Tucker per il quale «dalla giustizia e dalla necessità sociale della proprietà delle cose concrete abbiamo erroneamente desunto la giustizia e la necessità sociale della proprietà delle cose astratte – cioè la proprietà nelle idee – con il rischio di annullare in larga e deplorevole misura quella caratteristica fortunata delle cose in circostanze non ipotetiche ma reali – cioè la possibilità incommensurabilmente fruttuosa, per un numero qualsiasi di persone, di usare nello stesso tempo le cose astratte in un qualsiasi numero di luoghi diversi»

Grazie alla tecnologia e al web, ciò che sognava Tucker è diventato realtà. Il web è quel non luogo ideale e meraviglioso di scambio a costo zero di idee e opere. Io credo che pure Alessandro Manzoni sarebbe stato un dannato geek e avrebbe messo a disposizione la propria opera on line, perché quando uno scrive vuole essere letto, e più ci crede, più sarà intenso lo sforzo per arrivare al maggior numero di persone.

Che è come dire, liberi dalla dittatura del supporto (coi suoi relativi costi di produzione e diffusione) grazie al web, l’uso (senza fini di lucro) di un’opera dovrebbe essere libero. Ma non è così. Analizziamo un caso in particolare. Una roba che rende MILIARDI di persone colpevoli di furto agli occhi dei guardiani del copyright. Sappi, che anche tu ti sei macchiato di quest’ignobile colpa ogni volta che strafatto di glucosio (durante l’infanzia) o ebbro di alcol (right here, right now) hai cantanto in modo stonato e sgraziato happy birthday to you al tuo amico del cuore. Sì, perchè Happy birthday to you è tutelata da un blindatissimo diritto d’autore, in quanto è stata scritta dalle sorelle Hill che l’hanno depositata e, secondo la logica del copyright, non diventerà di pubblico dominio (in Europa) fino al 2016!!! Ciò sta a significare che se fai un film, non puoi inserirla nella sceneggiatura (e infatti si canta “perché è un bravo ragazzo” che evidentemente non è stata registrata). Se riprendi il compleanno di tuo figlio, non puoi caricare il video on line (non potresti comunque, neanche in buona fede perché, in modo ossessionato dalla pedolfilia, non potresti riprendere o fotografare i figli altrui senza il loro permesso scritto). Se vuoi riprendere il saggio di ginnastica ritmico-artistica in cui tua figlia balla una canzone di Lady Gaga e hai intenzione di metterlo su YouTube, sappi che YouTube potrebbe rimuovere il tuo video, perché Lady Gaga e tutto ciò che esce dalla sua bocca è di proprietà della Interscope. Ma dirai: io non ci guadagno un cazzo dal condividere on line il compleanno di mia figlia, il copyright non dovrebbe regolare lo sfruttamento economico delle canzoni di Lady Gaga? Il cazzo. Il produttore di supporto e il distributore di supporto Interscope, coi suoi guardiani del copyright (avvocati) dicono che tu non puoi usare quella canzone se non paghi. Fanculo a Tucker, fanculo a Proudhon. Il copyright non ti farà usare la canzone di Lady Gaga per il saggio ginnico di tua figlia fino a 70 anni dopo la morte di Lady Gaga, ok?!?!

I POETI MORTI

Thomas Stearn Eliot diceva che non si possono scrivere poesie decenti dopo i 25 anni. Cioè che tutto quello che è genuino e spontaneo si esaurisce ad un quarto di secolo di esistenza, nonostante questo ha scritto poesie fino alla morte… come ha fatto? Grazie ai poeti morti.

T.S.Eliot scriveva:

<<La tradizione non si può ereditare, e se la si vuole la si deve conquistare con grande fatica. Essa implica, in primo luogo, il senso storico, che è pressoché indispensabile per chiunque voglia continuare a dirsi poeta dopo i venticinque anni. E il senso storico […] costringe un autore a scrivere non solo insieme alla propria generazione, di cui egli è la concreta incarnazione, ma lo spinge a scrivere anche con la sensazione che l’intera letteratura europea a partire da Omero (e in essa tutta la letteratura del proprio paese) ha una esistenza simultanea e compone un ordine simultaneo. […] Non c’è poeta, non c’è artista di nessun’arte, che abbia un significato compiuto se preso per sé solo. La sua importanza, il giudizio su di lui, è il giudizio del suo rapporto con i poeti e gli artisti del passato. Non è possibile valutarlo da solo; bisogna collocarlo, per giustapposizione e confronto, tra i morti. […] quel che accade quando si crea una nuova opera d’arte, è qualcosa che accade contemporaneamente a tutte le opere d’arte che l’hanno preceduta. I monumenti esistenti compongono fra di loro un ordine ideale, che si modifica con l’introduzione tra essi della nuova (veramente ‘nuova’) opera d’arte. L’ordine esistente è in sé completo prima che arrivi l’opera nuova; perché l’ordine persista dopo la comparsa della novitas, l’intero ordine deve essere, sia pur in misura minima, alterato. E così i rapporti, le proporzioni, i valori di ogni opera d’arte si correggono rispetto all’insieme.>>

In poche parole: nessuno scrive o crea qualcosa di completamente nuovo. Tutto è frutto di un’elaborazione di influenze che, prima dei 25 anni vengono generalmente tratte dalla vita reale e dopo da ciò che leggiamo, vediamo, ascoltiamo. T.S. Eliot era uno che, nei suoi componimenti, citava interi pezzi di poesie dell’antica grecia e li inseriva nella Londra proletaria dell’inizio del Novecento.

Il primo verso di Bloody Revolution dei Crass e quello di Revolution dei Beatles. L’intera opera di Quentin Tarantino e un costante omaggio (scopiazzatura) al cinema di genere italiano e asiatico.

Quello che voglio dire è che, cazzo… mi sembra folle pensare di poter blindare le opere dell’ingegno. E’ assurdo poter pensare di mettere una merda di codice a barre sulle idee. Quando qualcuno crea, dona qualcosa agli altri. Ogni singola canzone (anche quelle più schifose) entra a far parte di qualcosa che pomposamente può essere definito patrimonio dell’umanità.

Il signor Lessing (fondatore delle licenze Creative Commons, di cui parleremo a breve) dice: «Chi riceve un’idea da me, riceve una conoscenza che non toglie nulla alla mia, così come chi accende la sua candela con la mia si fa luce senza per questo lasciarmi al buio. Che le idee circolino liberamente, una dopo l’altra, in tutto il mondo, perché gli uomini possano a vicenda trarne istruzione morale e miglioramento personale, senza negare un fatto voluto espressamente da una natura benevola, che le ha fatte come il fuoco, libere di diffondersi ovunque senza perdere in nessun punto la propria intensità […]. Le invenzioni non possono dunque, per loro natura, essere soggette a un regime di proprietà»

Qundi facendo un po’ di ordine:

Si parla di idee, si parla delle loro diffusione, si parla del loro commercio. E sono tre cose differenti.

Pensa, Racconta, Vendi. In un certo senso, se non ci fosse di mezzo un supporto (che implica dei costi da recuperare), le idee e le storie dovrebbero essere libere.

Cosa vuol dire? Che se nell’Ottocento fosse esistito internet e Le Monnier avesse messo in rete una versione dei Promessi Sposi, solo con l’intento di diffondere l’opera, senza costi e senza guadagni, Manzoni non gli avrebbe MAI fatto causa. Perché? Forse perché gli artisti del passato erano senza dubbio egocentrici, ma di certo meno avidi di quelli di oggigiorno. Dal sacrosanto diritto di guadagnare per ciò che si fa, si è intrapresa una lotta su ciò che non esiste ed è incalcolabile, ovvero il mancato guadagno. Sì, perché ogni roba scaricata è una copia acquistata in meno, dicono. (A parte che non è vero, tipo che io mi sono scaricata tanta di quella merda per cui non avrei mai speso un centesimo, tipo Amy Winehouse). Inoltre, il singolo fruitore, colui che scarica, non ci guadagna un cazzo dallo scaricare. Semmai non spende e qui si torna alla differenza tra ciò che è mercato e non lo è. Non si può fare un processo alle intenzioni o alle mancate azioni. Non puoi accusare di furto qualcosa che non possiedi ancora. E allora? Come si fa in fin dei conti a mettere in ordine questo delirio e mettere d’accordo tutti? Fruitori scettici, artisti egocentrici e avidi produttori di supporti?

IL FETICCIO DEL SUPPORTO

Pensiamo ad un mondo meraviglioso in cui, l’arte e la cultura sono liberi il cui utilizzo è determinato da una semplice dicitura dell’autore. Senza intermediari e senza bollini.

Io, per esempio, autrice di questo articolo decido se voglio che sia di pubblico dominio oppure che possa essere ricopiato, fotocopiato o diffuso liberamente a patto che non ci sia un intento lucrativo. Io, autrice, decido se puoi prendere questo articolo e farlo diventare una canzone (???) senza che tu mi chieda il permesso, perché io il permesso te l’ho già dato. Questa cosa si può fare grazie alle sei licenze CREATIVE COMMONS. Nel momento in cui tu crei un’opera, determini l’utilizzo che gli altri possono farne. Dall’attitudine blindata del copyright (TUTTI i diritti sono riservati), puoi decidere quali diritti vuoi rivendicare e quali a cui vuoi rinunciare (alcuni diritti riservati).

Sul sito Creative Commons ci sono una serie di video esplicativi molto semplici, che ti fanno capire tutto quello che c’è da capire.

Ok, va bene, fin qui è tutto bello e molto teorico, ma se esiste il diritto d’autore e se esiste un’industria dell’arte e della cultura, è per evitare quel fenomeno antipatico conosciuto come mecenatismo che imbriglia la creatività… e poi vuoi mettere l’emozione che ti dà l’odore della carta e sfogliare un libro. Ti ricordi il brivido di eccitazione che provavi a scartare un cd nuovo? E come guardavi la torretta che cresceva e cresceva, di mese in mese… E l’artista? Dopotutto deve pure mangiare. Povero…

E’ vero, ma a parte che ho trovato sempre brutti i cd, credo che i fruitori di arte e cultura, dovrebbero smettere di pensarsi come “consumatori” e provare a ripensarsi come “collezionisti”.

E se il supporto stesso fosse una forma d’arte?

Abbiamo lettori MP3 per ascoltare la nostra musica, abbiamo (avremo, io ce l’ho ed è fico) supporti per leggere e-book e possiamo scaricare i film e, collegando un cavo ethernet al pc, guardarlo direttamente in televisione.

Tutto ciò che concerne l’uso e la fruizione quotidiana di arte e cultura (o anche intrattenimento) è comodo, facile e gratis. Credo che l’industria del supporto allora, dovrebbe concentrarsi sulla qualità dell’oggetto. Abbattere i costi di produzione del supporto è inutile, in quanto non è possibile competere con l’assenza di costi del prodotto virtuale.

Se ho accesso a qualcunque cosa voglia gratuitamente, perché dovrei comprare un brutto libro tascabile senza la minima cura editoriale? Perché dovrei acquistare un brutto cd di plastica? Perché noleggiare (a costi esorbitanti) un film per poi restituirlo dopo pochi giorni? Se leggo (virtualmente) un libro e questo libro mi soddisfa qualitativamente mi verrà spontaneo acquistarlo. Se vedo (dopo averlo scaricato) un bel film, mi verrà automatico comprarlo e magari cercare un bel dvd, con tanti contenuti extra, ed una bella confezione da mettere ben in mostra nel mio archivio domestico. Il vinile! Sono troppo giovane per aver avuto l’onore di usufruire del vinile, ma ricordo quelli di mio padre e vedo che sono ancora lì… mostrati con fierezza. I miei cd (che ho amato, venerato) sono in una cazzo di scatola dell’ikea in una libreria dell’ikea. La metà delle copertine sono rotte. Non c’è un cd che sia nella custodia giusta. Sono rigati. Pieni di polvere. Gli ho ascoltati così tanti che li ho consumati. Per un bel film, per un bel libro, per un bel cd sarei disposta pure a spendere qualche soldino in più e avere un supporto di qualità. Bello da vedere, da toccare, da conservare. In macchina continuerò ad usare la mia chiavetta usb del cazzo, ma in casa, sulla mensola più illuminata ci sarà un meraviglioso vinile. Leggerò libri con il mio cybook, ma quelli che più mi hanno colpito, li comprerò e pretenderò una cazzo di introduzione e non voglio vedere neanche un refuso. Voglio della bella carta (a impatto zero) e una copertina come quelle dei vecchi libri, rigida con le letterine incise in oro. Il supporto non dovrebbe essere più un bene di consumo, ma esso stesso un’opera d’arte. Qualcosa che in sé reca fascino e preziosità. Sia mai che poi diventi pure un sistema premiante e meritocratico per le robe fatte bene. (Avete mai visto quanta merda c’è tra l’usato di blockbuster? O quanti libri di Aldo Busi e Margaret Mazzantini si trovano nei cestoni dei libri usati dei mercatini?)

CONCLUSIONE

Alle idee non si può applicare il concetto di proprietà privata.

Il diritto d’autore dovrebbe tutelare SOLO l’utilizzazione economica delle idee, attraverso la produzione e la vendita di un supporto che le contenga.

Il diritto d’autore, da tutela per chi crea è diventato un’arma per chi detiene i diritti patrimoniali di un’opera.

Il web svincola le idee dal loro supporto, rendendo desueto e contraddittorio il copyright (tutti i diritti riservati).

Le idee, private del supporto fisico, dovrebbero essere libere di circolare, di essere manipolate, rielaborate e usate per creare altre opere.

Le licenze Creative Commons regolano l’utilizzazione delle opere senza necessità d’intermediari. L’autore comunica direttamente cosa si può, e cosa non si può fare della propria opera.

La produzione di supporti dovrebbe puntare sulla qualità e conversare, non più con dei conusmatori di massa, ma con dei collezionisti consapevoli.